Estate, carenza di personale e imprenditori che non riescono a trovare lavoratori: ciclicamente la storia si ripete. I fattori che contribuiscono a scatenare e alimentare questa crisi, specie dopo il Covid, sono tanti, ma da diverso tempo a questa parte non passa mese, settimana o giorno in cui non sentiamo dire da qualcuno che sì: “È colpa del reddito di cittadinanza se la gente non vuole più lavorare“.

In realtà, non è proprio così. Certo i casi di abusi non mancano (qui cosa dicono di preciso le stime), ma considerati i problemi legati ai salari minimi non garantiti, la “migrazione” dei professionisti che hanno sfruttato i ripetuti lockdown per formarsi e ottenere un lavoro migliore, nonché il fenomeno delle grandi dimissioni, forse è riduttivo attribuire tutte le colpe al reddito di cittadinanza. Eppure, si lavora ancora per cambiarlo.

Sia chiaro, ogni miglioramento non può che essere accolto con positività ed entusiasmo. L’ultima novità, per esempio, riguarda le offerte ai lavoratori da parte di un privato: rifiutarle potrebbe costare caro a un beneficiario del sussidio.

Ma andiamo con ordine, e proviamo a spiegare come la misura di sostegno assicurata a chi è in difficoltà e senza un impiego potrebbe – ancora una volta – cambiare.

Reddito di cittadinanza, chi rischia di perdere il sussidio (oggi): i casi di decadenza

Ad oggi, vi sono determinate circostanze in cui il reddito di cittadinanza può essere perso o ridotto.

Nello specifico, è prevista la decadenza dal reddito di cittadinanza quando uno dei componenti il nucleo familiare:

  • non effettua la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro;
  • non sottoscrive il Patto per il lavoro ovvero il Patto per l’inclusione sociale;
  • non partecipa, in assenza di giustificato motivo, alle iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o ad altra iniziativa di politica attiva o di attivazione;
  • non aderisce ai progetti utili alla collettività, nel caso in cui il comune di residenza li abbia istituiti;
  • non accetta almeno una di tre offerte di lavoro congrue oppure, in caso di rinnovo, non accetta la prima offerta di lavoro congrua;
  • non comunica l’eventuale variazione della condizione occupazionale oppure effettua comunicazioni mendaci producendo un beneficio economico del Reddito di cittadinanza maggiore;
  • non presenta una DSU aggiornata in caso di variazione del nucleo familiare;
  • venga trovato, nel corso delle attività ispettive svolte dalle competenti autorità, intento a svolgere attività di lavoro dipendente, ovvero attività di lavoro autonomo o di impresa, senza averlo comunicato.

Inoltre, chiunque presenti dichiarazioni o documenti falsi oppure attestanti cose non vere oppure ometta informazioni dovute è punito con la reclusione da due a sei anni. È prevista, invece, la reclusione da uno a tre anni nei casi in cui si ometta la comunicazione all’ente erogatore delle variazioni di reddito o patrimonio, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio. In entrambi i casi, è prevista la decadenza dal beneficio con efficacia retroattiva e la restituzione di quanto indebitamente percepito.

Se l’interruzione della fruizione del Reddito di cittadinanza avviene per ragioni diverse dall’applicazione di sanzioni, il beneficio può essere richiesto nuovamente per una durata complessiva non superiore al periodo residuo non goduto. Nel caso l’interruzione sia motivata dal maggior reddito derivato da una modificata condizione occupazionale e sia decorso almeno un anno nella nuova condizione, l’eventuale successiva richiesta del beneficio equivale a una prima richiesta.

Reddito di cittadinanza: cosa è andato storto?

Sulla carta, quindi, la logica che sta dietro al riconoscimento del reddito di cittadinanza non fa una piega: sei in difficoltà? Ricevi un contributo economico per sostentare te e la tua famiglia; hai perso il lavoro? Lo stato ti aiuta a cercarlo o ti dà i mezzi per farlo. La misura assistenziale diventa così un investimento, per rilanciare l’occupazione e ridurre la povertà (contribuendo a far girare anche, nel lungo termine, l’economia).

Non basta però garantire un posto di lavoro qualsiasi, perché l’impiego deve essere coerente con il profilo del beneficiario e deve tendere a migliorare la situazione finanziaria e familiare di quest’ultimo. Col tempo, a tal proposito, diversi sono stati gli interventi volti a migliorare la prestazione Inps, proprio perché altrettanto numerose sono state le incongruenze emerse.

Il flop della figura dei navigator e le carenze dei servizi di assistenza da parte dei Centri per l’Impiego hanno complicato le cose. Di fatto, in molti casi (e a discapito di chi ne ha bisogno veramente), si è venuta a creare una situazione dove lo Stato ha continuato a erogare versamenti senza assicurare percorsi adeguati di avvio e inserimento al lavoro ai percettori. Da qui l’opinione diffusa di un reddito che non ha garantito alcun benefico, andando a pesare sulle casse erariali e rivelandosi l’ennesima spesa assistenziale da inserire nel bilancio dello stato.

Il sistema quindi ha iniziato a incepparsi, e in molte occasioni non è stato facile capire come e dove. Certo, forse, ogni volta che si sente di un imprenditore che si lamenta del fatto di non riuscire a trovare lavoratori per “colpa del reddito di cittadinanza”, la cosa che bisognerebbe capire è che tipo di impiego assicura in cambio. La prima domanda da farsi, per esempio, è se il problema sia davvero il reddito di cittadinanza o un lavoro a tempo pieno pagato quanto il versamento minimo assicurato dall’Inps (o a volte anche meno), che in molti casi, ricordiamolo, si aggira intorno ai 400/700 euro e non di più.

Certo, la situazione è molto più complessa, ma il caso di Francesca, a cui è stato offerto uno stipendio di 280 euro al mese per lavorare 10 ore al giorno, purtroppo, non è isolato in Italia (ve ne abbiamo parlato qui).

Reddito di cittadinanza: come potrebbe cambiare (ancora)

Per cercare di superare l’empasse, il Governo sta comunque lavorando – già da diverso tempo in realtà – a una soluzione che riesca a mettere d’accordo tutti: da un lato bisogna risolvere il problema dei settori che rischiano di fallire a causa della mancanza di lavoratori, dall’altro è necessario però garantire tutele e un trattamento adeguato e minimo a tutti.

Come? L’ultima novità è un’idea di modifica avanzata dal centrodestra, un emendamento al dl aiuti approvato dalle commissioni della Camera con il voto contrario del M5S.

Cosa prevede? Una nuova stretta al reddito di cittadinanza, che rischia di decadere quando il beneficiario rifiuta un’offerta congrua a chiamata diretta da parte di un datore di lavoro (anche privato) e per la terza volta consecutiva. La vera svolta è rappresentata dal fatto che l’imprenditore e/o l’azienda potranno segnalare il candidato, cui rifiuto verrà conteggiato nel calcolo dei tre impieghi non accettati che determinano la perdita del beneficio.

Il nuovo sistema a chiamata diretta aggiungerebbe quindi una nuova clausola al Patto per il lavoro, per cui:

  • i datori di lavoro avranno la possibilità di contattare direttamente i titolari di card RdC che hanno firmato con il Centro per l’Impiego il percorso finalizzato a trovare un’occupazione;
  • l’offerta dovrà poi essere comunicata al CPI di riferimento;
  • se, di fronte a una proposta valida e congrua, il lavoratore non accetta (senza quindi un valido motivo) allora l’imprenditore potrà segnalare il rifiuto, che verrà conteggiato dal Centro. Al terzo “no” non giustificato il percettore perde il sussidio.

Restano però da capire come verranno effettuate le verifiche e come evitati eventuali abusi. Al momento la norma prevede solo che sia il ministro del Lavoro a definire con un apposito decreto le modalità di comunicazione e di verifica della mancata accettazione dell’offerta congrua.